A volte c’è una cornacchia, piuttosto grossa, dal piumaggio lucido, con occhi luccicanti ed il becco che sembra accennare un ghigno strafottente di sufficienza.
Arriva, mi si posa accanto, talvolta persino con l’ardire di piazzarsi direttamente sulla mia spalla destra, venendo a cercare col suo sguardo il mio.
E’ silenziosa, non gracchia, ma mi graffia con gli artigli e mi punge col becco sul collo. Quando decide di svolazzarmi attorno osa persino beccarmi i fianchi: un fastidio tremendo, anzi, dolore, proprio!
La cosa peggiore, però, è che non ho il coraggio di cacciarla via!
Un’amica mi ha persino consigliato di impallinarla, ma non ci riesco: e poi che razza di vegana sarei a sparare ad una cornacchia! C’è già chi mi addita come traditrice dell causa perché per curare la tosse e il mal di gola a volte ricorro a miele e propoli, pensa se mi trovassero ad uccidere una povera cornacchia che manco sa gracchiare!
Le scarpe di pelle di quarta mano per i bimbi e il maglione di lana di settima generazione me li hanno perdonati, ma la cornacchia assassinata, proprio no, non ce la posso(no) fare!
Aspetto che se ne vada, cerco di annoiarla a morte diventando passiva e pigra, chiusa in una bolla di inattività creativa e attività abitudinaria: funziona sempre!
Non appena smetto di dar voce al mio sé profondo e mi accosto al modus vivendi del piccolo pinguino che si adattava troppo (“Storia del piccolo pinguino che si adattava troppo”, di Denis Doucet) la cornacchia non trae più soddisfazione dalla mia vicinanza e prende il volo per chissà dove, lontano da qui, lasciandomi addosso per qualche istante il peso della sua assenza.
Come se quello sguardo giudicante e quel ghigno aspro fossero i pilastri del mio vivere.
Per fortuna è una sensazione che dura il tempo di un battito di ciglia, forse due, al massimo tre…
Poi torno subito in me e mi rendo conto che ogni singola piuma di quella cornacchia rappresenta un’aspettativa sociale o un’aspettativa che io stessa nutro verso di me, generata dalla convinzione di dover fare fare fare per poter essere all’altezza del mio ruolo di donna-compagna-madre.
Vola via la cornacchia e cadono le zavorre dai nomi bizzarri come performance, multitasking, efficiency.
Torno ad onorare il mondo dell’essere e smetto di focalizzarmi solo in quello del fare.
L’autostima riguarda l’essere, l’autoefficacia riguarda il fare.
L’autostima non può dipendere (solo) dall’autoefficacia.
Io non sono ciò che faccio, non sono i ruoli sociali e lavorativi che rivesto e non sono nemmeno il nome che mi hanno dato alla nascita.
Allora perché a volte cerco ancora di costringermi in definizioni che possano soddisfare il pensiero comune?
Eppure sono dieci anni che lavoro sul mio io, sul radicamento, sulla gratitudine verso me stessa prima ancora che verso l’altro, sul perdono, sull’accettazione (intesa come accoglienza e non come resa).
Dieci anni di percorsi, di letture, di prove.
So bene chi sono! So bene quanto valgo!
Ma il bisogno del riconoscimento esterno torna ciclicamente a bussare alla porta.
E allora maledico le scelte sempre fuori dal seminato, che non incontrano (quasi) mail la comprensione di chi mi sta attorno.
E allora mando a quel paese gli sforzi per continuare a custodire gli ideali di una vita.
E allora, in barba al pacifismo e allo spirito zen, darei fuoco alle lingue “beata te” style e “perché te lo puoi permettere” mood.
Sì, certo, mica sono la sorella segreta di Gandhi!
Io perdo la pazienza ed il coraggio, perdo la calma ed il raziocinio, dico parolacce e spero nell’estinzione di certi soggetti, sosia della mia amica cornacchia.
La pratica della compassione senza se e senza me non fa ancora parte del mio orizzonte.
Del resto, non ho mai brillato per l’attitudine del fare la brava.
Me lo dicevano già da piccola: “E’ tanto bella, ma quanto è trista!”.
Poi però, siccome l’Universo mi vuole bene, dalle buie profondità cosmiche, arriva una voce azzurra, sfumata d’indaco e punteggiata di polvere dorata, fresca e potente come il respiro primordiale della Dea che c’è in me:
“Non cercare riconoscimento dove non nutri stima.
Sii madre e padre della tua bambina interiore e datti il riconoscimento incondizionato che meriti.”
Ecco, questo è quello che dovremmo fare un po’ tutte: abbracciare il nostro io bambino, credere nei suoi sogni, ascoltare i suoi bisogni, accoglierli, accudirli, dar loro il permesso di esprimersi a voce alta.
Andate fiduciosi nella direzione dei vostri sogni, vivete la vita che avete sempre immaginato.
-Henry David Thoreau
E non importa se qualcuno non capirà mai la fatica e la dedizione dietro una scelta, dietro un progetto, dietro una visione, dietro la nostra vita: sono le tracce che lasciamo il miglior riconoscimento nel quale possiamo sperare. E solo camminando si possono lasciare tracce alle spalle.
Allora, buon viaggio!